Cos’è l’opera lirica? Cosa si intende per i termini, spesso impropriamente utilizzati come sinonimi: melodramma, opera, dramma in musica? In questo sintetico excursus cercheremo di delineare i tratti fondamentali e l’evoluzione di un genere musicale che ha dominato i teatri europei prima e mondiali poi, per oltre 400 anni. Probabilmente le ragioni di tale successo planetario risiedono nella completezza del genere, che unisce diverse forme d’arte in una singola performance. L’opera è infatti la sintesi artistica di musica, arte scenica, pittura e scultura (negli elementi scenografici), poesia e danza.
Sebbene sia possibile identificare due date fondamentali per la nascita dell’opera, ovvero il 1598 a Firenze ed il 1637 a Venezia, l’evoluzione che ha portato alla genesi del genere risulta alquanto fluida e graduale, suoi antenati sono considerati il madrigale rappresentativo e le opere drammatiche medievali. Ma come si accennava precedentemente, la formalizzazione vera e propria degli stilemi del “dramma in musica” avvenne intorno al ‘600, grazie ad un cenacolo di intellettuali fiorentini noto come Camerata de’ Bardi, che ispirati dal modello della tragedia greca propugnavano i principi del “recitar cantando”[1]. Dal 1598 (anno di composizione del primo dramma in musica, ovvero Dafne di O. Rinuccini-I. Peri), al 1637 (anno di apertura del primo teatro pubblico), l’opera rimase sostanzialmente un genere elitario, che i nobili commissionavano e facevano mettere in scena nei propri teatri di corte. Fu l’apertura del Teatro San Cassiano a Venezia, primo teatro moderno a gestione “impresariale”, a determinare la democratizzazione del genere: all’opera finalmente potevano accedere tutti previo pagamento di un biglietto. I teatri pubblici di lì a breve si sarebbero diffusi a macchia d’olio in Italia, soprattutto a Napoli, Venezia e Roma, sancendo l’alba di una nuova era dello spettacolo.
Dal punto di vista musicale, l’opera delle origini si presentava come un flusso continuo di recitativi accompagnati dal basso continuo[2], ai quali si alternavano parti strumentali e brani cantati. Questi ultimi erano sovente ben ritmati e ben delineati melodicamente. I soggetti più frequentemente trattati erano sicuramente quelli mutuati dalla mitologia greca, seguiti da vicende d’arme medievali e rinascimentali. Il più influente compositore dell’epoca fu C. Monteverdi, apprezzato particolarmente per l’aderenza della musica al testo e la caratterizzazione psicologica dei personaggi, soprattutto nell’opera L’incoronazione di Poppea. Sebbene le partiture delle prime opere non indicassero strumenti precisi (prevedevano righi musicali generici), dalle testimonianze dell’epoca sappiamo che l’orchestra monteverdiana era abbastanza complessa e ben organizzata, contando strumenti a fiato, ad arco, a corde pizzicate, a percussione ed a tastiera.
Il genere operistico non tardò ad apparire in Europa. Alla corte del Re Sole, sovrano illuminato, provetto ballerino ed amante della musica, J. B. Lully percepì la possibilità di creare nuove tipologie di dramma in musica, che comprendessero il balletto e che proponessero un allestimento sfarzoso. La tragédie-lyrique e la comédie-ballet, per molti aspetti eredi del teatro declamato di P. Corneille e J. Racine, furono la risposta francese all’opera italiana. Diversamente da quest’ultima, focalizzata quasi interamente sull’efficacia delle linee canore, l’opera francese puntava su una maggiore attenzione alla declamazione prosodica ed al professionismo delle masse coinvolte. In particolare, l’innovativa struttura in cinque atti della tragédie-lyrique, fu caposaldo dell’opera di Francia sino al romanticismo.
Nel mentre, al di là della Manica, H. Purcell creava una forma di melodramma dai caratteri squisitamente inglesi, percepibili nella lingua, nella scelta dei soggetti (saghe bretoni, drammi shakespeariani, personaggi coloniali) e nel gusto musicale. Le sue note risultano di rara compostezza, l’orchestrazione è raffinata e le tinte a tratti cupe. Per quanto la musica di Purcell non godette di fama internazionale immediata, essa fu rivalutata nella prima metà del Novecento, tanto da influenzare significativamente la produzione di B. Britten ed altri contemporanei.
Nel frattempo l’opera italiana a cavallo tra Seicento e Settecento subiva una lenta trasformazione. La democratizzazione del genere, avvenuta come già detto intorno alla metà del XVII secolo, aveva sostanzialmente conferito al pubblico un forte potere decisionale. Risultando le parti cantate ed in particolare i funambolismi tecnici dei castrati[3] ben più apprezzati dei recitativi, i compositori iniziarono ad adeguarsi al gusto popolare. Le opere iniziarono perciò a comprendere un numero sempre minore di recitativi e sempre maggiore di arie. Convenzionalmente, ai primi era affidata la descrizione dell’accadimento drammatico in corso, alle seconde “l’affetto”, ovvero l’emozione provata dal personaggio durante l’azione stessa. Per questa ragione, ma anche per l’assenza di un principio compositivo uniforme lungo tutta l’opera, la maggior parte delle arie potevano essere “intercambiabili” ed eseguibili all’interno di opere diverse. Ogni cantante aveva quindi un repertorio di cosiddette “arie da baule”: cavalli di battaglia da utilizzare in più occasioni. Ciò rafforzò per tutta la prima metà del Settecento, lo schema a numeri chiusi introdotto da A. Scarlatti ed adottato da G. F. Händel.
A partire dalla seconda metà dello stesso secolo, la struttura bi-strofica delle arie, che venivano ripetute da capo per permettere al cantante di variarle mostrando il proprio virtuosismo, la disomogeneità del materiale musicale e la “sregolatezza” metrica del testo, vennero abolite dalla riforma di P. Metastasio, il quale propose una serie di regole formali che restarono in auge fino alla fine del settecento. Il letterato italiano, propugnando l’epurazione di ogni espediente comico dall’opera seria (tradizione diffusissima nel Seicento), fu inoltre iniziatore involontario dell’opera buffa, che fece la fortuna della Scuola napoletana[4].
Lo scenario musicale della seconda porzione del XVIII secolo fu pervaso dall’estetica del Classicismo viennese. Anche se le innovazioni nella musica vocale non furono così radicali come in campo strumentale, W. A. Mozart e C. W. Gluck riformarono rispettivamente l’opera buffa e l’opera seria sulla falsariga dei dettami metastasiani. Seppur proponendo architetture sostanzialmente immutate rispetto all’opera italiana, Mozart in particolare raggiunse un sommo livello artistico grazie all’introduzione di un principio compositivo ed un impianto tonale unitari per tutto lo svolgimento dell’opera. Le arie col “da capo” vennero relegate ad effetti volutamente vintage e la ricercatezza nei confronti della strumentazione diventò punto cardine della concezione musicale.
Intanto la figura di J.-P. Rameau, padre del Tardo-barocco musicale francese, aveva portato al massimo splendore il genere dell’opéra-ballet, un teatro musicale opulento, basato sull’alternanza di parti cantate, cori e danze, che si differenziava dalla tragédie-lyrique per una maggiore coerenza drammaturgica delle parti ballabili. Nella stessa nazione, durante la metà del XVIII secolo, una disputa denominata “Querelle des Bouffons” contrapponeva il “Coin du roi”, gruppo di sostenitori dell’opera di Lully, Rameau e Gluck, al “Coin de la reine”, sostenitori dell’opera buffa italiana della quale Pergolesi era il massimo esponente. Gli uni difendendo la solennità e grandiosità del genere francese, gli altri l’intellegibilità e godibilità del genere italiano. Per quanto i sostenitori dei “Bouffons”, tra i quali gli enciclopedisti Rousseau, Diderot e D’alembert, godessero di maggiore prestigio e di argomentazioni ritenute più solide, il re Luigi XV decise di porre fine alla disputa bandendo dai teatri francesi il genere buffo nel 1754.
Le prime due decadi dell’Ottocento in Italia, e la terza in Francia, furono dominate dall’eclettica figura di G. Rossini. Egli seppe consolidare il genere buffo grazie ad uno stile musicale di matrice post-mozartiana (che gli valse l’appellativo di “tedeschino”) portato agli estremi dell’effettività drammaturgica. Rossini si cimentò in ogni genere operistico (opera buffa, tragedia, opera seria), e trasferitosi a Parigi nell’ultima porzione della sua vita, fu insieme a D. Auber co-inventore del fortunato genere del grand-opéra[5].
Anello di congiunzione tra il tardo-classicismo ed il romanticismo fu la figura di V. Bellini. Compositore di grande gusto e talento, fu autore di melodrammi la cui estetica sobria ed il lirismo “alla napoletana” furono baluardi di una nuova era dell’opera italiana, il “Bel canto”. In realtà la denominazione del periodo risulta storicamente inesatta, in quanto il termine si dovrebbe più propriamente attribuire alla musica di A. Scarlatti, N. Porpora ed in genere alla Scuola napoletana del Settecento, ma la volontà belliniana (e rossiniana) di riportare la melodia alla sua purezza originaria, fa sì che oggi “belcantistiche” vengano per lo più considerate le opere di Rossini, Bellini e per estensione G. Donizetti.[6] Quest’ultimo insieme a S. Mercadante fu a sua volta il primo esponente del Romanticismo italiano, sebbene sia possibile identificare solo parzialmente i dettami del nuovo stile nella musica dei due compositori: la loro attenzione creativa si focalizzò più sulla bellezza delle linee vocali che su una poetica di pregnanza musicale tout court.
Il 1813 è l’anno di nascita dei due più grandi rivoluzionari della storia del melodramma: G. Verdi in Italia e R. Wagner in Germania. Se Verdi attuò un mutamento più che altro drammaturgico ed estetico del modo di comporre l’opera, Wagner scosse il genere dalle fondamenta. L’azione riformatrice del romantico italiano si estrinsecò soprattutto in ambito vocale, teatrale e di sintesi, mentre quella del tedesco si espletò in ambito musicale (mediante l’uso dei leitmotiv[7], di un’armonia ed un contrappunto ricercatissimi, di strumenti musicali innovativi), formale (tramite l’abolizione dei numeri chiusi e la creazione di regole metriche nuove), concettuale (fu autore di tutti i suoi libretti e trattò temi nazionalistici teutonici). L’idea wagneriana di universalità dell’opera d’arte portò l’autore a creare capolavori poliedrici (gesamtkunstwerk) basati sul principio del wort-ton, ovvero la commistione intima tra parole e musica, già cifra espressiva di C. Monteverdi due secoli prima.
Concettualmente antitetico al teatro wagneriano per intenti ed estetica fu quello ottocentesco francese, che si estrinsecava principalmente in tre generi: il grand-opéra, il cui principale esponente fu G. Meyerbeer, l’opéra-comique[8], portato in auge da D. Auber e A. Adam, e soprattutto l’opéra-lyrique di G. Bizet, J. Massenet e H. Berlioz. Variante italiana del grand-opéra fu la “grande opera”, originatasi sulla base del modello francese precedente, ma con un impianto meno monumentale ed una struttura in quattro atti anziché cinque. Esempio celebre ne è Aida di G. Verdi.
Durante il Tardo-romanticismo, in Russia si era sviluppata intanto la cosiddetta “scuola nazionale”, la quale si riproponeva il recupero delle tradizioni autoctone musicali (uso dei bordoni[9], delle scale modali, dei ritmi popolari) e la valorizzazione dei temi folkloristici (leggende e saghe russe, storie di Zar, letteratura classica russa). La nuova poetica si pose in netta contrapposizione all’esterofilia di Stato diffusa nel primo Ottocento: compositori quali M. I. Glinka prima e M. P. Musorgskij, A. P. Borodin, N. A. Rimskij-Korsakov poi, elaborarono un teatro musicale caratterizzato da un gusto tutto russo per i frequenti cambi di scena, l’uso di voci profonde, strumentazioni incisive ed un grande senso drammatico diffuso. Fu P. I. Čajkovskij a cercare, nell’ultima parte del secolo, una mediazione tra il gusto francese e l’identità russa. Analogamente in Boemia[10], i compositori B. Smetana, A. Dvořák e successivamente L. Janáček, portarono avanti un’identità operistica nazionale di grande interesse, punto forza della quale fu la commistione di diversi “sapori musicali” internazionali anche di provenienza extra-colta. Oggigiorno, l’interesse per la produzione boema è in continuo incremento in tutto il mondo.
A cavallo tra Ottocento e Novecento l’Italia vide la contrapposizione di tre “fazioni”: i Neo-wagneristi (A. Smareglia, A. Boito, F. Faccio), la Generazione dell’80 (I. Pizzetti, O. Respighi, F. Alfano) ed i veristi della Giovane scuola (P. Mascagni, U. Giordano, F. Cilea, R. Leoncavallo). Questi ultimi ricercarono l’efficacia drammaturgica mediante l’uso di un linguaggio musicale accattivante ed immediato, e di tematiche mutuate dalla quotidianità.
Sebbene annoverato spesso tra i veristi, una trattazione a parte merita Giacomo Puccini, le cui opere sono caratterizzate da forte universalità ed “internazionalità”. Ottima sintesi delle esperienze operistiche europee del passato, il teatro pucciniano è basato su una drammaturgia efficacissima e curata nei minimi particolari. Un ricercato senso dell’intellegibilità melodica pervade la sua musica, che non deve essere per questo considerata “facile”: la scrittura per leitmotiv, l’uso sapiente e mai fine a se stesso della modalità[11] e della strumentazione, rendono il compositore vicino all’Espressionismo musicale. Ciò che si rimprovera però maggiormente all’operista lucchese è la mancanza di identità nazionale e soprattutto l’incapacità di percepire i cambiamenti epocali che in Europa avvenivano al tempo: in Francia l’Impressionismo (C. Debussy e M. Ravel) si opponeva alla visione wagneriana di dramma totale, proponendo “fantasie liriche” basate più sull’effetto delle nuances musicali, che su un vero e proprio significante drammaturgico; l’Espressionismo invece, spingeva ai limiti del possibile il concetto di tonalità, che aveva già iniziato a sgretolarsi con Wagner[12]; autori quali R. Strauss e P. Hindemith, con i loro drammi modernisti a tinte forti, furono “interpreti” di un primo Novecento turbolento che sarebbe stato sferzato a breve da guerre e rivoluzioni. Tuttavia questi ultimi non abbandonarono mai totalmente il concetto di tonalità come fece A. Schönberg con l’opera Erwartung, primo melodramma atonale ed atematico della storia. Sebbene il compositore tedesco sia generalmente associato all’invenzione (ca. 1920) della dodecafonia[13], sia Erwartung che Pierrot Lunaire, le due opere schoenberghiane più celebri, risalgono al periodo pre-dodecafonico dell’autore. Bisognerà attendere il 1930, con Von heute auf morgen per avere la prima opera seriale di Schönberg. Nell’iniziazione storica di tale genere egli fu tuttavia anticipato dall’allievo A.Berg, che nel 1925 con Wozzeck dimostrò una geniale mediazione tra serialità, contrasto drammaturgico modale ed uso dei grundmotiv[14]. A seguire, gli anni Trenta e Quaranta del Novecento furono indubbiamente calcati dalla maturità straussiana[15], ma anche dalla produzione di B. Britten in Inghilterra, G. Petrassi in Italia e D. Šostakovič in Russia. Ad accomunare i tre compositori, la ricerca di una sensibilità musicale alternativa al Serialismo.
Dagli anni Cinquanta del secolo scorso si aprì invece un ventennio di avanguardia multiculturale proposta da I. Strawinsky, B. A. Zimmerman (notevole l’opera Die Soldaten, nella sua esplicita grandeur) e L. Berio. A seguire, negli anni settanta P. Glass iniziò ad approcciarsi al mondo operistico in modo del tutto iconoclasta: l’estrema ripetitività minimalista del materiale musicale proposto, unita alla non breve durata delle sue opere, lo portarono a prevedere la possibilità per il pubblico di uscire e rientrare dal teatro a proprio piacimento.
A partire dagli anni ottanta del Novecento ai giorni nostri assistiamo per contro ad un rifiuto post-modernista dell’avanguardia. Opere quali Ubu rex di K. Penderecki, Le Grande Macabre di G. Ligeti e S.François d’Assise di O. Messiaen testimoniano una tendenza alla rivalutazione dei valori operistici primo-novecenteschi. Allo stesso modo, Licht, ciclo di sette opere di K. Stockhausen, mostra un recupero voluto dei concetti di tonalità e melodia, utilizzati però in chiave moderna, secondo la tecnica compositiva della super-formula[16]. A metà strada tra gli avanguardisti ed i post-modernisti si collocano le figure di M. Feldman prima e W. Rihm poi. Entrambi i compositori hanno sviluppato una poetica estremamente personale, prendendo le distanze sia dalle correnti reazionarie, sia dalle avanguardie più estreme.
I primi decenni del 2000 sono caratterizzati da un calo della produzione operistica, per ragioni economiche oltre che di crisi del linguaggio. Caratteristiche comuni delle opere del 2000 sono la contrazione delle durate totali ed il recupero della melodia cantabile all’italiana. Si registra inoltre una tendenza alla contaminazione con la musica “extra-colta”, il musical e la musica afroamericana. Un filone più purista persiste comunque e prende sempre più piede. Tra gli esempi meglio riusciti del primo decennio ricordiamo: Cuore di Cane di A. Raskatov, Il re nudo di L. Lombardi, Natasha, Pierre and the great comet of 1812 di D. Malloy, Superflumina di S. Sciarrino ed Euridice e Orfeo di M. G. Scappucci. Si costata infine una crescente sensibilità alla musica dei giorni nostri da parte dei maggiori teatri d’opera, che programmano sempre più opere contemporanee e ne commissionano di nuove ai maggiori compositori viventi. La stagione scaligera 2015-2016 sarà ad esempio calcata da ben due opere contemporanee commissionate: CO2 di G. Battistelli e Fin de Partie di G. Kurtag.
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